Sonno e memoria

13 Nov 2019 ARTICOLI

La relazione tra sonno e memoria

A spiegare la nostra capacità di ricordare e di assimilare abilità e procedure non concorrono solo i due tipi fondamentali del sonno, cioè il non-REM e il REM caratterizzato da rapidi movimenti oculari. Nuove evidenze dimostrano che anche la microstruttura del sonno, riconducibile ai cosiddetti “fusi del sonno” e alle fluttuazioni che si verificano durante il sonno profondo, ha la sua importanza.

Per la prima volta si è inoltre dimostrato che la memoria procedurale (relativa al saper fare) non solo è legata al sonno, ma è anche influenzata dalla diversità di genere, cioè dall’essere uomo o donna. Se nel gentil sesso è più ampia e investe abilità più generali o nuove, nei maschi è altamente specifica e direzionata sui propri interessi.

Un cambio di prospettiva

Milano, 15 novembre 2013 – Dopo tanti anni di ricerca si è giunti a un cambio di prospettiva nel considerare la relazione tra sonno e memoria. Un nuovo studio ha messo in evidenza come chi ha avuto un’intensa attività cerebrale il giorno prima, e di conseguenza ha appreso molto, abbia un’elevata quantità di fluttuazioni cerebrali “buone” durante il sonno profondo non-REM, che favoriscono il consolidamento delle proprie esperienze.

Viceversa chi ha avuto una giornata caratterizzata da uno scarso impegno cerebrale presenta un sonno povero di queste oscillazioni che gli esperti indicano come le componenti A1 del CAP (Cyclic Alternating Pattern), una sequenza di onde lente che aumenta periodicamente d’intensità e di ampiezza per ritornare al suo stato iniziale e benefica per i processi cognitivi.  

La parola all’esperto:

<<Per scoprire questo nuovo dettaglio abbiamo considerato un giovane dotato di super-memoria e abbiamo cercato un aspetto distintivo nel suo riposo notturno rispetto a quello delle persone con una memoria normale. Ebbene i risultati della polisonnografia a cui è stato sottoposto hanno parlato chiaro: durante il sonno produceva molte più fluttuazioni A1, segno di un fitto colloquio tra la corteccia cerebrale e le strutture sottostanti che gli consentiva di memorizzare di più>>, dice Luigi Ferini-Strambi, direttore del Centro di Medicina del Sonno dell’ospedale San Raffaele di Milano e presidente eletto della World Association of Sleep Medicine (WASM).

Per stimolare la memoria

Studi successivi hanno dimostrato che la quantità di queste fluttuazioni A1 varia inoltre con l’età. I neonati ne sono ricchissimi (e hanno anche tanto sonno REM pure necessario per consolidare la memoria), gli adolescenti ne hanno un 71 per cento, i giovani adulti un 61 per cento mentre gli ultrasessantenni circa il 45 per cento. Per aumentare la loro produzione, e di conseguenza incrementare la memoria, si stanno studiando varie strategie. Recenti esperienze, ancora tuttavia sperimentali, hanno dimostrato che possono per esempio essere aumentate con stimolazioni magnetiche veicolate nelle prime due ore di sonno. <<Alla luce di questi risultati che sottolineano come la componente A1 del CAP sia un intermedio importante per i processi cognitivi, quali la scorrevolezza del discorso, la memoria lavorativa o l’apprendimento verbale, si può dare un consiglio ai giovani che studiano>>, dice Luigi Ferini-Strambi. <<Invece di fare le ore piccole alla sera e alzarsi all’alba per prepararsi a un esame, meglio programmare una bella dormita: aiuterà a consolidare le nozioni e a renderle fruibili il giorno dopo>>.  

Sonno e memoria: una lunga storia

Questi risultati sono stati tuttavia possibili grazie a un percorso di studi iniziato tanto tempo fa. La prima evidenza che il riposo notturno fosse protettivo verso il naturale dimenticarsi di situazioni e cose, risale addirittura al 1924. Da allora altre ricerche sono state svolte in merito. <<I dati raccolti hanno sottolineato per esempio come l’archiviazione delle informazioni apprese di giorno avvenga soprattutto nel sonno profondo (non-REM) durante il quale si registrano i livelli più bassi di acetilcolina (massima disattivazione del sistema colinergico), il neurotrasmettitore necessario per captare informazioni a noi utili nella veglia>>, ci aggiorna Luigi Ferini-Strambi. Altre osservazioni hanno spinto gli scienziati a sostenere che non esiste una sola memoria, ma più memorie riconducibili a due categorie: quella dichiarativa, che ci ricorda quali cibi si sono mangiati a cena o a pranzo, il giorno del nostro compleanno piuttosto che il nome del nostro collega, e quella implicita o procedurale, che riguarda le nostre capacità e non ci fa dimenticare per esempio come si va in bicicletta o come si guida l’automobile.

Dalla macro alla microstruttura del sonno

Il passo successivo è stato quello di capire a quale tipo di sonno facessero capo queste due memorie. Nel giro di non molto tempo si è risalito al fatto che la memoria dichiarativa era più legata al sonno non-REM e quella implicita al sonno REM. Cosa sarebbe successo se si privavano dei volontari sani di una parte di questi due tipi di sonno? L’esperimento è stato eseguito ma ha dato risultati deludenti. E il motivo sembra risiedere nel fatto che i ricercatori non sono riusciti a togliere completamente il sonno REM o il sonno non-REM dai vari soggetti.

Si è fatto allora strada il concetto che altri fattori potessero influenzare l’esercizio della memoria, ritrovabili nei dettagli del sonno piuttosto che nella sua macrostruttura. Si è così arrivati ai giorni nostri, in cui con esperimenti recenti si è chiarita l’importanza del CAP per il consolidamento della memoria, come pure quella dei “fusi del sonno”. Queste caratteristiche figure che ci compaiono subito dopo l’addormentamento nel sonno leggero (stadio 2 del sonno non-REM), prese in prestito in parte dalla realtà che conosciamo e che si sta lasciando e in parte arricchite con elementi fantastici, sembrano infatti anch’esse fondamentali per non dimenticarci ciò che dovremo fare il giorno dopo. 

Un articolo di Manuela Campanelli, biologa e giornalista professionista

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