Subclinical epileptiform activity during sleep in Alzheimer’s disease and mild cognitive impairment

L’attività epilettiforme subclinica NON predice il Mild Cognitive Impairment

Partendo da recenti evidenze che suggeriscono la presenza di un incremento dell’attività epilettiforme subclinica (AEs) anche in pazienti con Alzheimer senza epilessia, in particolare durante il sonno (Horvath et al., 2018; Vossel et al., 2016), lo studio appena pubblicato su Clin Neurophysiol ha confrontato la frequenza di occorrenza di AEs durante una notte di polisonnografia in tre diversi gruppi: 50 pazienti con diagnosi di malattia di Alzheimer, 50 pazienti con deterioramento cognitivo lieve e 50 anziani sani di controllo senza epilessia. I gruppi sono stati confrontati sulla base della frequenza di AEs riportata sia considerando l’intero periodo monitorato (tempo totale di letto) che specificatamente il periodo di sonno, senza trovare differenze significative tra i gruppi. Gli autori, quindi, hanno effettuato un confronto specifico per stadio di sonno (N2, REM) per indagare la presenza di eventuali differenze stadio-specifiche, ma anche in questo caso i tre gruppi sono risultati paragonabili.

I risultati quindi non confermano quelli dei due recenti studi sull’AEs durante il sonno di pazienti con Alzheimer senza storia precedente di epilessia (Horvath et al., 2018, Vossel et al., 2016). Di fatto, solo un numero molto esiguo di partecipanti (equamente distribuito tra i 3 gruppi) ha esibito AEs nel periodo monitorato e senza esibire pattern differenziati in funzione dello stato di coscienza considerato. Questo dato, ottenuto su un campione controllato – a differenza dei precedenti studi – non solo per l’assenza di storia di epilessia, ma anche di trattamenti farmacologici favorenti l’insorgenza di attività EEG epilettiforme (p.e. antidepressivi, inibitori dell’acetil-colinesterasi o antipsicotici), non supporta l’indicazione di una maggiore presenza di AEs nella malattia di Alzheimer o nel deterioramento cognitivo lieve rispetto ad una popolazione sana comparabile per età. Questo, da un lato, pone l’attenzione sull’importanza della considerazione degli effetti secondari convulsivanti dei trattamenti farmacologici in caso di comorbidità in queste popolazioni cliniche, che potrebbero facilitare insorgenza di crisi e contribuire così negativamente al decorso della malattia. D’altro canto, i risultati, non escludono che una maggiore frequenza di AEs possa essere distintiva di forme precoci o genetiche di malattia di Alzheimer, in cui questi fenomeni potrebbero effettivamente rappresentare un indice della rapidità di progressione o di un più severo declino cognitivo, suggerendo la necessità di indagini ulteriori in questo campo.

Dott.ssa Aurora D’Atri, membro AIMS

Riferimenti bibliografici:

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